Short stories Abdul (inedito)

Partirono in tanti quella notte, l'Africa ormai non era più un problema loro. 
Furono ingaggiati per portare le persone dalla Libia  all'Italia, un viaggio di routine, facile facile come mille altre volte. Questo per loro sarebbe stato l'ultimo viaggio, poi, grazie alla cospicua somma di denaro intascata, si sarebbero dati una regolata magari comprando casa e mettendo su famiglia. A Zuwarah il traffico illegale costituisce la base dell’economia, l’unico impiego disponibile in un’area desolata e ormai ridotta a zona franca. I trafficanti di esseri umani, arrivano prima  dell’alba, caricano i migranti e sfrecciano verso la costa. Auto, furgoni, carrette stracolme di persone si incontrano sulla spiaggia. I migranti si guardano spaesati mentre gli scafisti urlano ordini e spintonano. Un gozzo, una barca di legno, e quando si è fortunati un peschereccio vecchio e malridotto, vengono riempiti sino all’ultimo centimetro.
 I due fratelli fecero così salire gli ultimi uomini sul barcone, imprecando e bestemmiando per sentirsi veri duri. Sghignazzavano tra loro, vedendo ogni essere umano trasformato in oro. Ad ognuno veniva consegnato un telefono satellitare da usare per contattare la Guardia Costiera, quando gli scafisti li avrebbero abbandonati in acque italiane. Niente bagagli, solo una bottiglietta d'acqua, che a poco servirà se si vuole sopravvivere, bisognerà bere l'acqua del mare. Sul pontile era rimasto un ragazzino, che solo e impietrito si rifiutava di salire. "Ehi tu, che cazzo fai! Sali sacco di merda!" - Urlò Carmine al bambino. Ma Abdul, così lo chiamavano i trafficanti, scosse la testa vigorosamente, con l'aria atterrita. 
Il fratello di Carmine, più giovane di lui di 7 anni e dai modi leggermente più aggraziati , gli disse - "Se fai così si mette a correre e chi lo prende questo, è veloce come una gazzella. Aspetta, scendo e lo porto su". Ma, intuendo  le mosse, Abdul si libera dalla stretta del suo aguzzino e scappa, corre, nella notte sotto un cielo coperto di stelle.
Abdul arriva dalla Costa d'avorio e ha l'ambizione dello studio. Furbo e attento, abituato a cavarsela da sempre, voleva tentare la fortuna in un altro paese che potesse offrire una svolta reale alla sua vita. Sembrava un'idea realizzabile fino a quando, arrivato in Libia, si rese presto conto di essere carne da macello. Si stava alimentando una guerra tra poveri che si contendono una zolletta di zucchero, mentre c’è chi si prende tutta la scatola. Chi parte, è perché ha in cuor suo, un sentimento di sfiducia generalizzato e totale verso il sistema, oltre al richiamo dell’Eldorado europeo è inoltre certamente l’aspetto economico il più rilevante.
Corre Abdul, senza sapere dove andare. Gli mancano i profumi della sua Abidjan, l'odore pungente e conosciuto della torrefazione del cacao; manca la sabbia e la polvere,  l’oceano e  la laguna e le sue mangrovie. 
Cade più volte e più volte si rialza, finché, sopraffatto dalla stanchezza si accascia immobile ad ascoltare il suono del suo cuore che impazzito, batté più forte, fino a sopirsi. 
Si svegliò di soprassalto sentendo qualcosa che gli tirava i capelli. Due occhi neri lo stavano fissando, incuriositi almeno in apparenza. Accovacciato a terra, un bimbetto, in compagnia di tre caprette che stavano pacatamente brucando quel poco che l'arido terreno offriva. Si alzò di scatto Abdul salutando il piccoletto "Sabāha l-ḫair", disse inchinando leggermente il capo in avanti, era l'unica parola che conosceva in Arabo, ma il piccoletto non rispose, anzi fuggì di corsa poco più in là, tanto da far pensare ad una pessima pronuncia o peggio, ad un significato totalmente diverso dal voluto, ma tornò con un ragazzo magrissimo, che gli sorrise. Ripeté fiducioso il saluto e questa volta ebbe risposta. 
I due ragazzi berberi erano fratelli e vivevano con il padre e con le tre capre in quella zona spoglia e desolata del Fezzan, nel cuore del deserto del Sahara. A gesti invitarono Abdul a seguirli, arrivarono in breve tempo ad un'oasi, dove una piccola comunità di tuareg dimorava. 
 Dal punto di vista sociale i tuareg si dividono in tre classi: nobili, servi e schiavi. I nobili o Ihaggaren costituiscono varie piccole tribù accentranti il potere politico-amministrativo; i servi o Imgad sono pure raggruppati in piccole tribù coi capi proprî, ognuna delle quali dipendente da una tribù nobile a cui deve prestazioni di mano d'opera, pagamento di determinati tributi e assistenza in caso di guerra. Gli schiavi o Ikelan, oggi praticamente liberi, sono i discendenti di Negri catturati durante le razzie; essi continuano a vivere presso i loro antichi padroni adibiti quasi esclusivamente alla pastorizia e a un poco di agricoltura.
Abdul fu accolto in questa piccola comunità, dove la gente è sempre gentile, umile ma al tempo stesso estremamente orgogliosa. 
Il tuareg per lo stato non esiste, non hanno documenti, non hanno data di nascita o carta di identità, il deserto è la loro patria e Abdul si sentì quasi libero, per certi aspetti. 
Gli fu subito offerto il tè,  una cerimonia con cui i tuareg augurano buoni auspici ai loro ospiti. Imparò che la cerimonia del tè serve per avvicinare le culture distanti, per rilassare dopo le fatiche del deserto e per stringere amicizie e alleanze. Ogni degustazione è dettata da tre portate di tè: il primo amaro, il secondo agrodolce, il terzo dolce e saporito. Insieme, queste bevande rappresentano i cicli dell’esistenza: morte, vita e amore.
Apprese che gli uomini si caratterizzano per il tipico turbante, il “taguelsmut”, il quale ricopre tutto il viso lasciando normalmente liberi solo gli occhi. Un fatto, questo, essenziale anche per gestire le altissime temperature delle zone desertiche. Tale turbante è solitamente di un indaco immediatamente riconoscibile, ma la tinta può variare anche in funzione della classe sociale: blu per i nobili, nero per le persone comune, bianco per gli schiavi. I giovani hanno solitamente la testa rasata e, raggiunta l’adolescenza, incominciano a lasciar crescere una folta barba, seppur priva di baffi. Gli adulti, invece, non solo mantengono la barba, ma anche lunghi e fluenti capelli. Le donne hanno invece il capo ricoperto da un velo, ma il viso quasi completamente scoperto.
Sono i figli del vento, la cui vita è legata indissolubilmente ai ritmi della terra, il cui spirito vaga come un granello di sabbia e proprio il vento portò Abdul in questo luogo dimenticato e affascinante e proprio qui, a oltre 4000 kilometri di distanza dalla sua terra d'origine, lui si rende finalmente conto di essere vivo. Stranamente, felicemente vivo, nonostante tutto, VIVO! 


Immagine in artedigitale ©Raffreefly 

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